L'attivismo di marca

L’attivismo di marca

Se un tempo la seduzione e il glamour erano vincenti per fare breccia nel cuore del proprio pubblico, nell’era postdigitale l’attivismo di marca sembra essere la nuova parola d’ordine. 

A consacrare questo diktat, il bestseller di Philip Kotler e Christian Saarkar dal titolo: Brand activism: from purpose to action, ne presenta i tratti salienti. 

L’”attivismo” si può definire come l’insieme di attività volte a promuovere processi di riforma ambientale, economica, politica e sociale con il desiderio di apportare miglioramenti nella società. A partire da questa definizione, i due autori spiegano come l’attivismo di marca sia la strada da seguire per un’azienda che desidera prosperare in futuro, in quanto esprime la chiara volontà di assumersi responsabilità in ambito sociale e di partecipare al raggiungimento del bene comune. «Business is now expected to be an agent of change» dichiarano gli autori e indicano nell’attivismo di marca la strada per crescere in termini di rilevanza. Il risultato è una nuova narrativa e conseguente azione di marca che si propone di dare un contributo per migliorare la società.

Ma perché l’attivismo di marca è diventato così prominente nel ventunesimo secolo? Per capire meglio il contesto in cui si inserisce questo fenomeno, è necessario leggere alcuni importanti report recenti. 

Trust Barometer 2020, il report dell’agenzia Edelman che analizza annualmente l’andamento della fiducia, rivela che, nonostante una forte economia globale, la maggior parte degli intervistati in ogni mercato sviluppato non crede che tra cinque anni staranno meglio. Le preoccupazioni e le paure sono ampie e profonde. Paura per la perdita di lavoro, per il cambiamento climatico, per l’immigrazione, e così via. Si diffonde il pessimismo a causa dell’ascesa di populismi, politiche divisive e della generale sfiducia nei confronti delle istituzioni a livello mondiale. L’aumento dello scetticismo verso le istituzioni tradizionali lascia molto spazio alle organizzazioni, e in particolare alle aziende, che possono sviluppare una cultura interna guidata da un solido comportamento etico. I driver etici come integrità, affidabilità e finalità guidano vicino al 76 per cento del capitale fiduciario delle imprese, mentre le competenze ne rappresentano solo il 24 per cento. 

Secondo un altro studio condotto dal gruppo di comunicazione e marketing Havas «Meaningful Brands», che indaga la correlazione tra rilevanza di un brand e i suoi risultati economici, risulta che il 75 per cento degli intervistati si aspetta un contributo maggiore da parte dei brand per il miglioramento della qualità della vita

Un’altra indagine recente di Unilever riporta che due terzi dei consumatori di tutto il mondo affermano di scegliere le marche per la loro posizione sulle questioni sociali e oltre il 90% dei Millennial afferma che cambierebbe brand a favore di uno che sostiene una buona causa. La generazione Z è anche più “politica” di quella dei Millennial e ancora più sensibile a istanze di lotta contro l’ingiustizia.

A fronte dei risultati di queste ricerche, l’attivismo di marca e l’idea che i brand agiscano e prendano posizione rispetto ai grandi temi sociali, ambientali, economici e politici del momento prende forza. Se storicamente i brand hanno promosso caratteristiche di performance del tipo «iI mio dentifricio è migliore del tuo», il mio dentifricio «fa i denti più bianchi», «previene la carie», «rinfresca l’alito», posizionando la marca su caratteristiche prestazionali che li differenziava dalla concorrenza, oggi questo modo di fare marketing sembra non bastare più. Le storie pubblicitarie autoreferenziali e basate sulla USP (Unique Selling Proposition) ovvero su quel beneficio vantaggioso, del tipo «sono bravo a fare questo e ti dico perché», non suscitano più interesse. Questo tipo di promessa pubblicitaria non risulta sufficiente ai fini di una relazione di fiducia tra marca e persone. Queste ultime si aspettano che le marche guardino oltre il profitto e si facciano carico dei problemi e delle preoccupazioni per le comunità che servono e delle minacce del mondo in cui vivono. In un mondo di disuguaglianze sociali e incertezze future, posizionamenti di marca che dimostrano impegno in una direzione etica condivisa possono arrivare al cuore del pubblico.

Body Shop è stato uno dei primi brand a promuovere valori etici e a sostenere un attivismo di marca a favore dei diritti degli animali, il commercio equo, la difesa dell’ambiente. Molti clienti hanno approvato e condiviso le cause promosse dal brand e ne hanno acquistato i prodotti proprio perché si rispecchiavano in quei valori. 

La comunicazione di un brand risulta più efficace quando la sua proposta di valore risuona con i valori rilevanti per il proprio pubblico e lo porta a manifestare consenso acquistando il prodotto o servizio, aderendo attivamente alla causa o semplicemente condividendo il pensiero.

L’attivismo di marca può anche essere descritto come una strategia di risonanza. I valori del brand sono allineati ai valori degli stakeholder. Il bene comune ne rappresenta l’istanza e l’obiettivo finale. 

I brand che prendono posizione e lo fanno in senso progressivo, proponendosi come evangelist di nuove idee, nuovi interessi, arrivano a instaurare relazioni di fiducia con i propri pubblici. 

La narrazione di marca da autoreferenziale si sposta all’esterno dell’azienda per dare un contributo attivo alle istanze sociali, ambientali, politiche, economiche. In questo passaggio il brand activism si trasforma in valore per la marca.

In un mondo sempre più complesso e frammentato, le persone hanno più ansie e paure e per questo hanno bisogno di trovare punti di riferimento. Diventa naturale prendere posizione su alcune grandi tematiche di valore sociale. Vale per le persone e vale per i brand. Ma serve fare molta attenzione. 

Per essere credibile come attivista, il brand deve rivelare una profonda connessione alla causa a cui si associa e mantenere una coerenza totale con tutti gli elementi comunicativi. Un posizionamento attivista incoerente rispetto alla storia del brand dimostra il contrario del messaggio che si vuole trasmettere. Più l’impegno è dichiarato e più l’aspettativa del pubblico cresce e cerca conferma nelle azioni. 

In questo mondo della post-verità, i brand devono esaminare il proprio comportamento e ottenere la fiducia delle persone premendo su tematiche che sentono proprie, altrimenti gli stessi consumatori riusciranno a smascherare l’associazione incoerente tra brand e causa sostenuta. È necessario un approccio attivista che dimostri fattivamente di credere in ciò che fa. Un brand che si prefigga di dare un contributo di scopo sociale deve compiere un’attenta valutazione della propria missione, storia e cultura interna prima di compiere tale scelta.

Maria Pia Favaretto

Approfondimenti

  • Philip Kotler e Christian Sarkar, Brand Activism dal purpose all’azione, tr. it. di S. Addamiano, Hoepli, Milano, 2020 (il saggio è stato pubblicato per la prima volta, in inglese, nel 2018).
  • Maria Pia Favaretto, La strategia di comunicazione dell’era postdigitale, libreriauniversitaria.it, Padova, 2020.
  • Trust Barometer  Report, URL: https://www.edelman.com/trustbarometer.
  • Activistbrands, URL: http://www.activistbrands.com/

Crediti fotografici

Foto di Markus Spiske da Unsplash.

 
 
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